Il trattato «Della tirannide» e le tragedie dal 1777 al 1781

Nel 1777 a Siena l’Alfieri scrisse la prima di quelle che chiamò «tragedie di libertà», la Virginia. Ma prima di parlare della Virginia, del Timoleone, della Congiura de’ Pazzi, è necessario esaminare rapidamente un’opera in prosa, il trattato Della Tirannide, che ha grande importanza non solo per l’atteggiamento politico e combattivo dell’Alfieri, ma anche per un periodo della sua attività tragica, in cui (con evidenti rischi di oratoria e di scambio fra poesia e volontà prammatica) egli accentuò il carattere agonistico, l’impeto eroico della sua poesia nello schema dell’urto fra uomo libero e tiranno, nella situazione dell’eroe anelante a libertà e nella caratterizzazione del tiranno, in cui par ripercuotersi anche quell’esasperato bisogno di azione che caratterizzava lo stesso ritmo centrale dell’Oreste.

Quest’opera fu scritta in un singolare impeto di fervore ideale, e per quanto l’Alfieri abbia cercato di darle una chiarezza espositiva e un’efficacia di vero e proprio trattato essa è pervasa da una passione che dà alle formulazioni politiche soprattutto un carattere di frementi intuizioni, di posizioni sentimentali e che, specie nel finale, avvicina la struttura dell’opera a quella delle tragedie; e, come in queste, vi campeggia la figura potente dell’eroe che combatte contro i limiti rappresentati dalla tirannide, dello scrittore-eroe che concepisce la sua opera come una battaglia per l’affermazione della propria libera personalità: il che è ben chiarito da quella dedica «Alla Libertà» in cui l’Alfieri si presenta in un potente rilievo eroico e drammatico come uomo che abbandonerebbe volentieri la penna per impugnare la spada e che quella adopera solo perché i tempi gli negano l’azione diretta[1].

Nella Tirannide l’Alfieri è animato da una impetuosa volontà di distruzione e di liberazione radicale e perciò non solo si distacca dalle piú comuni posizioni del riformismo illuministico, ma le combatte apertamente, distrugge l’ideale settecentesco del dispotismo illuminato e del “buon principe” che adopera a favore dei suoi popoli il proprio assoluto potere, identifica con la tirannide ogni tipo di monarchia che ponga il sovrano al di sopra delle leggi, e giunge alla conclusione estremistica e rivoluzionaria del “tanto peggio, tanto meglio”, preferendo le tirannidi estreme a quelle moderate che illudono e addormentano i popoli, sognando una situazione tragica in cui un supremo abuso da parte del tiranno e il gesto eroico dell’uomo libero (tirannicidio o sacrificio personale) provochino una insurrezione del popolo e, attraverso una violenza necessaria, il capovolgimento da un’estrema servitú ad una totale libertà. Portato all’estremo il motivo antiassolutistico e antimonarchico, mettendosi energicamente all’avanguardia delle posizioni illuministiche piú radicali, in questo eccezionale momento di rottura rivoluzionaria (la costruzione di un nuovo ordine è qui rimandata a quel futuro libro Della Repubblica che egli non scrisse mai), l’Alfieri stringe insieme, con lucida passione, i «corpi» che collaborano al mantenimento dell’«universale servaggio» e li identifica mostrandone la radicale unità e la necessaria interdipendenza per distruggerli in un sol colpo nell’atto rivoluzionario insieme alla tirannide di cui sono appoggio: la casta militare, quella sacerdotale, quella nobiliare.

Circa la «milizia», che egli considerava «uno stato di piú nello stato», una forza che sotto il pretesto della difesa dai nemici esterni servirebbe solo al tiranno contro i propri sudditi e la loro possibile insurrezione, è particolarmente notevole la precisazione del necessario rapporto fra patria e libertà, nella mancanza del quale l’esercito non può essere che strumento di oppressione interna e difesa da nemici che potrebbero togliere al popolo la libertà che già il tiranno interno ha soppresso:

Che, non si potendo dir patria là dove non ci è libertà e sicurezza, il portar l’armi dove non ci è patria riesce pur sempre il piú infame di tutti i mestieri: poiché altro non è, se non vendere a vilissimo prezzo la propria volontà, e gli amici, e i parenti, e il proprio interesse, e la vita, e l’onore, per una causa obbrobriosa ed ingiusta.[2]

Quanto alla casta sacerdotale e alla religione considerata nei suoi rapporti con il potere politico, il capitolo VIII del Libro I (uno dei piú complessi e ricchi di osservazioni acutissime pur in mezzo ad altre piú avventate e paradossali) si basa su di una osservazione fondamentale per tutto il trattato e per la generale posizione alfieriana: l’idea del tiranno è simile a quella che il volgo ha di Dio (come «assoluto e terribile signor d’ogni cosa»), sicché la concezione assolutistica in politica viene a collegarsi ad una concezione religiosa in cui il monoteismo abbia preso forme “monarchiche”, la vita sia vista come pura sottomissione ad una divinità concepita piú come potenza che come amore, e quindi sia predicata in ogni campo la «cieca obbedienza» e il rispetto assoluto dell’autorità e del tiranno che interamente si assimila a Dio in quanto assoluto padrone. Da questo punto di vista soprattutto la religione cattolica appare all’Alfieri «incompatibile quasi col viver libero», appunto per il carattere autoritario e gerarchico della sua Chiesa, che (diversamente da quelle protestanti) richiede al popolo di credere che vi possa «essere un uomo [il papa], che rappresenti immediatamente Dio; un uomo, che non possa errar mai»[3]: donde per l’Alfieri una conseguente disposizione del popolo a credere anche nell’infallibilità dei suoi despoti politici, che sono ben lieti di appoggiare una istituzione cosí utile a loro magari sostenendone il tribunale dell’Inquisizione e ricambiando sempre quel riconoscimento di sacralità che il potere religioso è solito fare al potere politico, negandolo al popolo.

L’altra classe interessata al mantenimento delle monarchie assolute è quella nobiliare, di cui l’Alfieri, che ne aveva criticato in chiave umoristico-polemica la frivolezza e l’insensibilità nell’Esquisse di Jugement Universel, chiede nella Tirannide non la trasformazione in funzioni piú socialmente utili, ma addirittura la distruzione.

Ma il trattato Della Tirannide non ci interessa solo come documento vivacissimo della passione politica alfieriana nel suo momento piú rivoluzionario e impetuoso; esso si presenta ricco di pagine e di spunti importanti per lo studio delle tragedie, illuminanti lo scavo psicologico della figura del tiranno e dei cortigiani, l’atmosfera della reggia, scena della maggior parte delle tragedie. Come si può constatare leggendo il capitolo III del Libro I, «Della paura», in cui la dimostrazione del singolare rapporto fra tiranno e sudditi (la paura reciproca) tende nella concitata e potente prosa alfieriana a trasformarsi in immagini suggestive che sembrano viva introduzione al clima delle stesse tragedie:

I Romani liberi, popolo al quale noi non rassomigliamo in nulla, come sagaci conoscitori del cuor dell’uomo, eretto aveano un tempio alla Paura [...]. Le corti nostre a me pajono una viva imagine di questo culto antico, benché per tutt’altro fine instituite. Il tempio è la reggia; il tiranno n’è l’idolo; i cortigiani ne sono i sacerdoti; la libertà nostra, e quindi gli onesti costumi, il retto pensare, la virtú, l’onor vero, e noi stessi; son queste le vittime che tutto dí vi s’immolano. [...]. Teme l’oppresso, perché oltre quello ch’ei soffre tuttavia, egli benissimo sa non vi essere altro limite ai suoi patimenti che l’assoluta volontà e l’arbitrario capriccio dell’oppressore. [...] Ma, teme altresí l’oppressore. [...] Rabbrividisce nella sua reggia il tiranno [...] allorché si fa egli ad esaminare quale smisurato odio il suo smisurato potere debba necessariamente destare nel cuore di tutti.[4]

E quanto alla figura dell’uomo libero, specialmente il Libro II, breve ed intenso come i finali delle tragedie, ne arricchisce la psicologia e ne rappresenta la situazione drammatica nella sua naturale impossibilità a servire e quindi a vivere nella tirannide; a lui rimarrà aperta solo la via del tirannicidio e «la gloria di morir da libero, abbenché pur nato servo». Ed è evidente che da un punto di vista poetico piú dello stesso eventuale risultato positivo del gesto risolutivo ed eroico dell’uomo libero conta il gesto in se stesso, l’affermazione magnanima della propria natura, della propria vocazione alla libertà in quell’urto contro la forza del tiranno di cui l’Alfieri sente cosí altamente la suggestione, come sente il fascino della morte affrontata ed invocata come suprema prova di eroismo.

Vero è che nella Tirannide non manca una speranza, un elemento di fede eroica in un risultato positivo del gesto tirannicida o del sacrificio dell’uomo libero, che possono provocare un risvegliarsi improvviso del popolo e la sua insurrezione irresistibile.

Ma questa soluzione ottimistica, se pur corrisponde ad un momento importante dell’ideale e delle aspirazioni alfieriane, non è certo la piú congeniale ai motivi piú profondi della sua poesia, a cui meglio si adattano le conclusioni tragiche e dolorose dei suoi eroi sconfitti sul terreno dei risultati pratici, e anche se eccezionalmente vincitori, tormentati dall’uso della violenza imposto loro dalla natura della lotta politica (donde il loro frequente «purtroppo», che è la parola tematica alfieriana ed esprime in maniera tanto complessa quel sentimento doloroso della realtà che passerà dall’Alfieri al piú profondo motivo elegiaco della poesia del Foscolo, malgrado la fede foscoliana nei valori della poesia e della storia), tormentati dal sangue dovuto versare in situazioni che l’Alfieri istintivamente creava quanto mai dolorose e tali da togliere ai suoi eroi ogni possibilità di gioia e di serenità anche nel successo (Timoleone dovrà far uccidere il fratello tiranno, Bruto dovrà condannare a morte i propri figli).

Sicché proprio nei riguardi delle tre «tragedie di libertà», che l’Alfieri scrisse in questo periodo, si può osservare che la vicinanza della Tirannide contribuí ad accentuare in esse una tendenza troppo apertamente pragmatica ed oratoria, a far prevalere l’aspetto piú pratico della sua poetica dello scrittore-eroe, della poesia come esortazione alla libertà. Cosí, nella scelta delle varie soluzioni implicite nella Tirannide e nella meditazione sulla conclusione dell’azione dell’uomo libero, si può riconoscere una diversa possibilità di vita poetica di quelle tragedie, una diversa loro intonazione e profondità. Cosí nella Virginia (che è la piú vicina alla fede eroica della Tirannide, e di questa risente l’impeto piú ottimistico, la speranza rivoluzionaria) l’Alfieri dà al gesto eroico di Virginia una conseguenza positiva, e la tragedia si chiude con il grido del popolo insorto: «Appio, Appio muoja», che preannuncia la sconfitta e la morte del tiranno, la vittoria dell’insurrezione e della libertà.

Ebbene questa stessa soluzione, cosí insolita nelle tragedie alfieriane, può indicare la natura meno profonda della Virginia (pur nella luce radiosa della speranza, nel fresco entusiasmo per tutto ciò che è nobile e puro, nel fervore di un’azione liberatrice che coinvolge tutto un popolo, nel ritmo alacre di quest’azione che si svolge in piena luce e con gran movimento di masse), la sua situazione meno corrispondente al piú profondo motivo poetico alfieriano, che chiede sempre nella catastrofe quella vibrazione dolorosa qui piú assente, come è assente ogni vero tormento nella tensione impetuosa, ma piú superficiale e volutamente oratoria che caratterizza questa tragedia e la colloca piú sul piano dell’efficacia che dell’intera poesia.

E mentre nel Timoleone egli cerca di dar vita, in un disegno tragico piú intellettualistico, ad una soluzione intermedia (l’uomo libero vince, ma a prezzo della morte del fratello, aspirante tiranno, e quindi soffre un senso di dolore e di colpa che annulla in lui il valore della vittoria), la piú congeniale scelta della soluzione tragica dell’uomo libero sconfitto e suicida nella Congiura de’ Pazzi corrisponde certamente ad una impostazione tanto piú alfieriana e poetica di questa tragedia, di gran lunga la migliore delle tre. Prova questa di come anche un soggetto politico potesse permettere risultati poetici quando il poeta sapeva far vibrare nella situazione politica, nella tensione alla libertà l’eco di un dramma piú profondo e generale, dando allo stesso dramma politico un significato piú suo proprio nel rifiuto di ogni ottimismo e nell’accettazione di un contrasto tanto piú vero nell’uomo libero, tanto piú eroico perché sfortunato, consapevole della resistenza estrema della realtà e tuttavia contro questa virilmente combattivo e restio ad ogni compromesso e rinuncia.

Ogni ottimismo, ogni facile speranza sono assenti dalla Congiura e l’uomo libero (il personaggio interessantissimo di Raimondo), incapace di sopportare una servitú che è per lui (come per l’uomo libero della Tirannide) una «non vita», accetta una lotta difficile anche a costo della propria morte e della disfatta, contando soprattutto sul proprio eroismo, consapevole della natura degli uomini per lo piú incapaci di sacrificio e amici del successo e dei vincitori. Sicché, in un’aura di pessimismo virile tanto piú congeniale all’animo poetico dell’Alfieri, l’azione sarà tutta nelle mani di pochi individui e l’eroe saprà che il popolo seguirà il vincitore e si accanirà sul vinto. Quando, nel finale, la moglie Bianca, udendo il grido della moltitudine che vuole a morte il traditore, chiede a Raimondo chi è il traditore, Raimondo risponde con l’amara consapevolezza realistica degli eroi alfieriani: «Il traditor, fia ... il vinto»[5]. La realtà è, in questa tragedia, ostile e dolorosa, e l’uomo libero invano tenta di trasformarla, invano lotta eroicamente contro il limite che lo circonda, contro la situazione di servitú di cui sente tanto tormentosamente il peso oppressivo, diversamente dagli eroi troppo sicuri ed astratti della Virginia, cosí come sente, tanto meglio di quelli, la fragilità della natura umana, e nel suo furore di libertà sente insieme la difficoltà di realizzarla, la forza dei sentimenti piú dolci («l’appassionatissimo umano stato di padre e marito» di cui si parla nel cap. VIII del I Libro della Tirannide) che egli deve vincere nella sua lotta.

Dopo la concezione della Virginia e della Congiura e mentre elaborava queste e il Timoleone, l’Alfieri scrisse tra il ’78 e l’81 altre tragedie non direttamente o solamente politiche, anche se fortemente legate a corollari della Tirannide, e tutte dedicate alla rappresentazione della vita nella reggia. Si tratta però di tragedie di diversa intonazione e forza poetica e nell’insieme questo periodo non è un periodo di grande energia creativa e sembra piuttosto (se si eccettua l’Ottavia con la sua grande figura centrale) una fase di repliche e di svolgimenti poco originali di motivi e figure delle prime tragedie, che ora vengono rielaborate e perfezionate (per il Don Garzia si pensa al Filippo, per la Rosmunda al Polinice e all’Oreste); una fase di ricerca meno felice di variazioni di situazioni ora sofisticate e macchinose come nella Maria Stuarda, ora lucidamente, analiticamente congegnate come nel Don Garzia, ora affidate ad impeti parossistici come nella Rosmunda.

Debolissima è poi la Maria Stuarda (ideata e stesa nel ’78-79, verseggiata in prima redazione nell’80), che lo stesso Alfieri nel suo Parere disse «la piú cattiva di quante ne avesse fatte o fosse per farne l’autore; e la sola, ch’egli non vorrebbe forse aver fatta»[6], e che dichiarò avere scritta solo per suggerimento e soddisfazione della sua donna[7], senza alcuna necessità di ispirazione. Ed è infatti tragedia fredda e arzigogolata e insolitamente bisognosa, per rialzare il finale, di un espediente esterno e teatrale (nel senso deteriore del termine) come lo scoppio delle polveri accumulate sotto il castello in cui si è ritirato Arrigo, marito di Maria Stuarda: espediente volgare che denuncia l’assoluta mancanza d’ispirazione di una tragedia priva di una sua autentica tensione, a cui l’Alfieri cercò di rimediare con simili mezzi, indegni della sua aristocratica concezione della poesia, o con il ricorso ad enfatiche e inconcludenti visioni profetiche (come quella immediatamente celebre del sacerdote Lamorre[8]), o con la complicazione di drammi incerti o astratti: quello di Maria, incerta fra il dolore di un amore non ricambiato per il marito[9] e il desiderio del regno assoluto; quello di Arrigo, incerto fra la sua natura di vittima predestinata di una macchinazione a cui Maria collabora involontariamente e una incomprensione (fatta piú di equivoci che di poetici contrasti) dell’animo della moglie; quello di Botuello, piccolo e mediocre aspirante alla tirannia, freddo e meccanico; quello del sacerdote Lamorre, che invano vorrebbe evitare la presentita catastrofe e che porta una inutile aggiunta di motivi storici (la lotta fra protestanti e cattolici nel regno di Scozia, la polemica antipapista).

Invano l’Alfieri cercò di arricchire con tanti particolari diversi una tragedia nata senza autentica necessità, di rianimare una concezione senza forte centro ispirativo, dispersiva e senza passioni.

Ben diversa invece (anche se lontana da un risultato pieno ed alto) è la Rosmunda (ideata e stesa nel ’79, verseggiata in prima redazione nell’80) che sembra, al contrario della Maria Stuarda, guastata da un’eccessiva tensione, da un ribollire di passioni estreme che non raggiungono equilibrio e che pure la rendono alfierianamente significativa ed interessante.

Piena di passioni eccessive, di sentimenti portati in una direzione di espansione estrema e di sfogo, la tragedia vive in un’atmosfera suggestiva di barbarico orrore (richiama in qualche modo il Polinice), in una reggia cupa e lugubre (quella longobardica di Pavia), fra gli echi, all’inizio e alla fine, del fragore di una «feral battaglia», sotto il peso continuo dell’incubo della morte minacciata e invocata da tutti i personaggi. E se il risultato è piú un rude abbozzo grandioso che un perfetto organismo, e se la forza e l’espansione sentimentale prevalgono sulla espressione potente e compiuta di sentimenti scavati e complessi, quest’opera è certamente nata da un momento intenso, da un bisogno di sfogo (con quel tanto di torbido, di convulso, di disordinato che appunto uno sfogo, piú che una trasfigurazione sicura, comporta) dell’animo alfieriano nelle sue componenti di furore e di tenerezza, anche se queste sono lontane dalla loro fusione migliore e sono accomunate dal loro carattere di eccesso piú che dall’accordo profondo e poetico che era stato raggiunto in altre tragedie precedenti e che sarà di nuovo e piú potentemente raggiunto nel Saul.

Al centro della tragedia, e particolarmente viva nella sua tensione cupa e ossessiva (con un fascino di volto meduseo, come disse il Momigliano), sta il personaggio di Rosmunda, la regina che, dopo l’uccisione dell’aborrito Alboino, anela al compimento del suo desiderio di vendetta (l’eliminazione della figlia di Alboino, Romilda), complicato dalla gelosia che viene ad accrescere il suo odio per Romilda quando si accorge dell’amore che a quella porta il suo nuovo marito (e uccisore di Alboino), Almachilde, e soprattutto dall’invidia per la felicità della fanciulla che ama riamata il generoso Ildovaldo. Diversi motivi precisi si accumulano nel suo animo, tormentato da un fondamentale bisogno di affermazione e di felicità ostacolata da infiniti limiti e quindi pervaso da un odio convulso contro tutti coloro che si oppongono al suo assoluto dominio e le presentano l’immagine di quella felicità che a lei non è concessa.

Sicché, mentre essa agisce con una forza di perfidia che le consentirà di eliminare l’odiata Romilda e Ildovaldo e che le lascia di fronte Almachilde come oggetto su cui ancora sfogare il suo odio inesauribile, il suo rancore insaziabile – il vero motivo della sua azione – è, piú che un disegno preciso di vendetta, il sentimento tormentoso della propria infelicità, il risentimento per la felicità altrui. Rivelatrici in proposito sono le sue parole alla fine dell’Atto IV, quando Romilda le rivela il suo amore felice per Ildovaldo:

«Tanto ami tu?... sei riamata tanto?... / Oh rabbia!... ed io?»[10].

Piú incerto (per non parlare di Almachilde e di Ildovaldo, in cui maggiormente si esprime il notato motivo di espansione sentimentale che confina con un’intonazione di melodramma romantico[11]) è il personaggio di Romilda, in cui si mescolano senza perfetta fusione elementi di personalità eroica e combattiva e di elegia e di tenerezza sentimentale che ricordano certi elementi di Antigone (purezza virginale, altezza aristocratica, vocazione alla morte), ma qui piú aperti, eccessivi e non organizzati in una potente e controllata coerenza.

Tragedia appassionata ed intensa, la Rosmunda rimane però incapace di superare la sua natura di sfogo e di eccesso, e manca di quella lucidità di disegno che l’Alfieri veniva sempre meglio acquistando (magari in forme di schematicità, come nel Timoleone) in questo periodo, e che si accorda con tanta altezza poetica nell’azione condotta dal personaggio di Filippo nella tragedia omonima (nelle sue redazioni piú mature).

Proprio in questa direzione di conquista di un lucido e saldo disegno della tragedia può calcolarsi soprattutto l’importanza e il valore del Don Garzia (ideato nel ’76, steso nel ’78 e verseggiato in prima redazione nel ’79), che potrebbe anche considerarsi come una specie di Filippo minore (quanto a poesia), in un disegno assai convincente anche se sin troppo ricco nella doppia macchinazione ai danni dell’innocente Salviati e di Don Garzia: la prima ideata da Cosimo de’ Medici per eliminare l’ultimo oppositore, il Salviati, facendo eseguire il delitto da Don Garzia, il figlio virtuoso e dissenziente dalla sua dittatura priva di ogni scrupolo morale; la seconda ordita dal perfido Piero per sbarazzarsi del fratello Diego, facendolo uccidere da Garzia che sarà cosí a sua volta ucciso dal padre Cosimo. La tragedia si risolve in una lucida e complicata catena di perfide macchinazioni dominate da due tremende volontà: quella di Cosimo, e quella piú lucida e spietata di Piero, che, sfruttando diabolicamente l’occasione offertagli dal padre, riesce a far entrare nella grotta dove attende Garzia l’altro fratello, Diego (impetuoso, ma non malvagio), che cosí cadrà sotto i colpi destinati al Salviati. Cosimo si troverà cosí privato del figlio piú diletto e sfogherà il suo sdegno su Garzia, mentre Piero avrà sgomberato da ogni rivale la propria ambizione di regno.

La trama è precisa e calcolata in ogni particolare, e lo svolgersi delle due macchinazioni è lucido ed incalzante come il precipitare progressivo dell’uomo giusto e innocente nel delitto e nella morte a cui lo costringe l’amore per la giovane Giulia. E da questo punto di vista il risultato è davvero notevole, come è notevole l’atmosfera d’incubo che dall’azione stessa si crea in questa reggia scellerata, in questa famiglia di tiranni.

E certamente, come notò l’Alfieri nel suo Parere, in questa tragedia “la cosa serve all’azione”, tutti i particolari funzionano per lo svolgimento dell’azione.

Ma questo servire della «cosa» all’azione è pur diverso dalla perfetta armonia e dal profondo valore poetico dell’azione che notammo nell’Agamennone, ed è proprio un’intensa vita poetica che manca a questa tragedia tecnicamente cosí interessante.

La stessa lucidità dell’azione ha qualcosa di metallico, di troppo congegnato, e raramente corrisponde ad essa e ai suoi ben calcolati passaggi e momenti di tensione un’effettiva vibrazione dei personaggi, quelle battute sublimi di imperioso orrore, di rivolta dei personaggi alla loro sorte, di esitazioni sull’orlo dell’abisso che si apre davanti a loro che provoca in altre grandi tragedie una simile perfezione di disegno, una simile esatta concatenazione di vicende e di scene.

Meno sicura, da un punto di vista del disegno e dell’azione, ma piú ricca di poesia (e senza dubbio la piú interessante delle tragedie di questo periodo) è l’Ottavia (ideata nel ’79, stesa nell’80, verseggiata in prima redazione tra l’80 e l’81).

Qui l’Alfieri ha ritrovato, almeno in parte, la sua voce poetica piú profonda e, se si possono porre dei limiti agli altri personaggi, Ottavia resta certamente una delle indimenticabili figure dell’Alfieri e, mentre riprende elementi della bellissima Antigone e prelude ad elementi di Mirra, ha una sua individualità poetica di grande valore, specie nella direzione di una delicatezza e di una sensibilità umanissima che troppo spesso vennero negate dalla critica alla poesia alfieriana, pur cosí ricca e complessa.

Piú incerto è nella tragedia quello che si potrebbe considerare il dramma di Nerone: un dramma che rimane piuttosto abbozzato e poco profondo, come la stessa figura del tiranno che ha una sua personalità, ma grossolana, volgare, poco corrispondente alla promettente battuta con cui, ad apertura di tragedia, Nerone risponde a Seneca («Signor del mondo, a te che manca?»): «Pace»[12]. Risposta che sembra implicare un tormento interiore e che invece si risolve in una volontà di dominio senza limiti e in un odio per Ottavia (troppo virtuosa ed amata dal popolo e ostacolo al suo nuovo amore per Poppea) non privi di vigore, ma senza drammatici contrasti dell’anima.

Ma le incertezze della tragedia per quel che riguarda il gruppo di Nerone, Tigellino e Poppea, e la debolezza del motivo amoroso in Ottavia (su cui però non occorre insistere troppo), non tolgono che la grande figura centrale abbia un suo intero svolgimento poetico e che, nel contrasto con la figura piú abbozzata, ma pur vigorosa di Nerone[13] e con l’ambiente perfido e grossolano della corte, acquisti una tanto maggiore altezza di solitudine.

Ottavia è introdotta assai tardi nella tragedia (nella scena 6 del II Atto), e solo con la sua presenza entra nella tragedia la vera poesia: poesia costruita con mano delicata e ferma nell’intuizione centrale di una figura sicura della propria alta dignità, ma disposta ad accettare la propria sorte di vittima di un mondo basso e brutale (nella fedeltà ad una immagine lontana di uomo amato, quando era cosí diversa dal tiranno che la disprezza e la odia, e soprattutto nella fedeltà a se stessa e al proprio onore di moglie e di imperatrice), finché l’accusa dell’amore per il citarista Eucero, l’offesa alla sua purezza che essa teme piú della morte, vengono ad accrescere la tensione e il tormento di Ottavia, la sua trepidazione, la sua solitudine e insieme il suo bisogno disperato di una persona amica con cui sfogare il proprio dolore:

Vieni, o Seneca, vieni; almen ch’io pianga

con te: niun con chi piangere mi resta.[14]

E come nei dialoghi con Nerone (di fronte alla sua volgarità, al suo impeto di odio chiuso ad ogni fremito di pietà) essa rivela la ricchezza di motivi del suo animo puro e fedele, in quelli con Seneca (che a poco a poco è come investito della grandezza di Ottavia e supera la sua natura di retore un po’ garrulo e sentenzioso in una crescente pietà per l’eroina, in una crescente coscienza della propria dignità, specie quando vede cadute per sempre le sue frivole speranze in un ravvedimento di Nerone e sente l’amarezza e il rimorso di averlo assecondato nei suoi primi passi verso la tirannia, sperando di volgerli al bene e di poterli guidare e fermare a proprio piacimento) essa esprime le sue note piú intime e umane: il desiderio della morte liberatrice e il timore di non saperla affrontare con coraggio a causa della propria fragilità femminile (che è ripresa di un elemento poetico già cosí vivo in Antigone):

... Nel rientrare in queste

soglie, ho deposto ogni pensier di vita.

Non ch’io morir non tema; in me tal forza

donde trarrei? La morte, è vero, io temo:

eppur la bramo; e sospiroso il guardo

a te, maestro del morire, io volgo.[15]

Quando poi, all’inizio dell’Atto V (dopo un Atto intero da cui essa è assente e Nerone con Tigellino e Poppea son riusciti ad ingannare il popolo e a farlo disperdere), Ottavia si trova definitivamente abbandonata da tutti ed esposta alla morte e al disonore, la sua figura acquista una grandezza e una verità poetica ancora maggiori. Sola nella reggia ostile, circondata dal silenzio e dalle tenebre («Ecco, già il popol tace: ogni tumulto / cessò; rinasce il silenzio di morte, / col salir delle tenebre. Qui deggio / aspettar la mia sorte»[16]) che aumentano il fascino della sua indifesa solitudine e creano un’atmosfera di dolorosa sospensione (uno dei grandi risultati della poesia alfieriana, raggiunto attraverso parole cosí misurate ed intense), Ottavia attende la fine del proprio martirio, e una elegia commossa e limpida si alza nel suo monologo e si arricchisce poi degli elementi essenziali della sua risoluta tensione a difesa della propria purezza, della sua brama della morte e del suo timore di un’attesa troppo lunga della morte stessa che possa indebolirla e avvilirla[17], quando negli ultimi dialoghi con Seneca (che sempre meglio esprime la sua disperata delusione, il rimorso per l’inutilità della sua azione: «Misero me! co’ miei cadenti giorni / salvar sperava i tuoi. Dovea la plebe / udir da me le ascose, inique, orrende / arti del rio Neron;... ma invano io vissi»[18]) decide di morire di fronte agli occhi di Nerone e di Poppea e si avvelena con il veleno racchiuso nell’anello di Seneca.

E di fronte a Nerone e a Poppea, e di contro alle loro espressioni di odio (voci di un mondo senza generosità e senza altezza spirituale), nell’ultima scena Ottavia morente troverà (in presenza di quella grande rivelatrice della vera natura dei personaggi che è per l’Alfieri la morte, quando ogni compromesso e prudenza definitivamente svaniscono) supreme parole di dignità, di purezza, di condanna e di perdono che concludono con grande efficacia la sua vita poetica in una intonazione di elegia senza languore, nell’alta consapevolezza della propria personalità immacolata, venata dal dolore di un amore infelice, che in questo momento di distacco non ci turba con la discutibilità della sua difficile giustificazione psicologica.

Evidentemente in questa figura femminile l’Alfieri aveva espresso le note piú delicate della sua sensibilità, la sua alta pietà per le vittime, gli elementi piú sottilmente elegiaci del suo animo, la sua malinconia piú segreta: e in questo senso meglio si capisce, malgrado i suoi difetti di costruzione troppo sommaria, il valore dello stesso personaggio di Nerone come immagine di un mondo volgare, prepotente e vile di fronte a cui tanto piú forte è la malinconia che circonda la figura umana e aristocratica di Ottavia.

Certo anche questa tragedia e questa stessa figura non esprimono tutto l’animo poetico alfieriano e sembrano nate in un momento di meditazione piú triste ed elegiaco[19] (anche se non mancano nella stessa Ottavia l’elemento di forza e il senso alfieriano della dignità personale dei suoi personaggi, nella difesa della sua purezza e della sua fama) rispetto ai momenti di ispirazione piú intera ed eroica.

Verranno poi il Saul e la Mirra in cui elegia, malinconia, abbandoni di tenerezza saranno tanto piú potentemente efficaci in figure piú energiche e in tragedie tanto piú vigorose e significative per il grande motivo poetico alfieriano della rivolta contro il limite e del sentimento doloroso del limite; e anche questa tragedia può apparire parziale rispetto a quella nuova e suprema fase della sua poesia, di fronte alla quale tutte le tragedie del periodo studiato in questo capitolo hanno qualcosa di preparatorio e di parziale.

E può anzi sembrare strano che l’Alfieri, dopo la rielaborazione delle prime tragedie e la composizione di queste nuove, pensasse davvero (come dice nella Vita) di poter chiudere la sua attività di tragico: perché proprio dopo queste ultime tragedie doveva apparirgli tanto piú necessaria una nuova espressione piú intera del proprio animo poetico, una sintesi piú vigorosa degli elementi poetici e delle esperienze tecniche delle opere precedenti che riportasse ad eguagliare e superare l’altezza e complessità di tragedie come il Filippo o l’Agamennone: e infatti nell’82 un nuovo impeto creativo lo ricondurrà alla poesia, e nuovi anni fecondi di attività gli daranno i capolavori Saul e Mirra e la prima serie delle Rime.


1 «Io, che in tal guisa scrivere non disegno [per adulare i potenti]; io, che per nessun’altra cagione scriveva, se non perché i tristi miei tempi mi vietavan di fare; io, che ad ogni vera incalzante necessità, abbandonerei tuttavia la penna per impugnare sotto il tuo nobile vessillo la spada; ardisco io a te sola dedicar questi fogli» (Della Tirannide, in Scritti politici e morali, I cit., pp. 7-8).

2 Ivi, p. 43.

3 Ivi, p. 46.

4 Ivi, pp. 16-17.

5 At. V, sc. 5, v. 231 (in V. Alfieri, La Congiura de’ Pazzi, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di L. Rossi, Asti, Casa d’Alfieri, 1968, p. 91).

6 Parere sulle tragedie cit. p. 111.

7 Si ricordi che Luisa Stolberg era moglie di Carlo Edoardo Stuart, diretto discendente di Maria Stuarda.

8 At. V, sc. 1. Questo brano oratorio rappresenta una concessione al gusto settecentesco delle visioni “sublimi” e, mentre vuol persino – per ragioni biografiche – colpire il povero e vecchio “pretendente” Carlo Edoardo, appare del tutto contrastante con quella che doveva essere la figura di Maria Stuarda (complice involontaria di un delitto e vittima essa stessa della trama di Botuello e di Ormondo, ambasciatore di Elisabetta), presentandola invece come «arrabbiata tigre».

9 Nella vita ambigua e dispersiva di questo personaggio sono sciupati anche alcuni motivi poetici piú genuini e vivi nell’animo alfieriano, come quello dell’amore non ricambiato, della tensione dell’individuo a rompere la sua solitudine nel dono prezioso dell’“amare riamato” («tolto / era a me d’ogni ben l’unico, il sommo, / l’essere amando riamata!»; At. I, sc. 1, vv. 57-59; in V. Alfieri, Maria Stuarda, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di R. De Bello, Asti, Casa d’Alfieri, 1970, p. 15), che anima tante rime e tante lettere di anni successivi.

10 Sc. 5, vv. 302-303; in V. Alfieri, Rosmunda, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di M. Capucci, Asti, Casa d’Alfieri, 1979, pp. 63-64.

11 Cosí Almachilde dirà, con un tipico andamento da melodramma: «So che ogni ben posto non è nel trono: / so, ch’altro v’ha, che mi faria piú lieto; / so, che assai manca all’esser mio felice» (At. II, sc. 1, vv. 84-86; ivi, p. 18); e Ildovaldo prima della battaglia saluterà cosí Romilda: «Ov’io non deggia / piú vederti, o Romilda, in un l’estremo / addio ti lascio, e il saldo giuramento / d’eterno amore, oltre la morte» (At. IV, sc. 2, vv. 174-177; ivi, p. 57). Naturalmente non si tratta piú di un patetismo metastasiano, quanto di un cantabile raggiunto per aperta espansione ed abbondanza sentimentale su di una base nuova, romantica.

12 At. I, sc. 1, v. 1; in V. Alfieri, Ottavia, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di A. Fabrizi, Asti, Casa d’Alfieri, 1973, p. 27.

13 E la sua forza è in realtà soprattutto il suo cinismo volgare, il suo disprezzo per ogni valore, la forza di profanazione della purezza di Ottavia, ancor piú che la volontà di potenza che ha limiti piuttosto meschini nella sua paura del popolo.

14 At. III, sc. 1, vv. 1-2; Ottavia cit., p. 55.

15 Vv. 49-54; ivi, p. 57.

16 At. V, sc. 1, vv. 1-4; ivi, p. 85.

17 Cfr. At. V, sc. 4, vv. 138-150 (ivi, p. 92):

[...] e s’io

alle minacce, ai tormenti cedessi?

Se per timor mi uscisse mai dal labro

di non commesso, né pensato fallo,

confessïon mendace?... Da lunghi anni

uso a mirar dappresso assai la morte,

tu stai securo; io non cosí; d’etade

tenera ancor, di cor mal fermo forse;

di delicate membra; a virtú vera

non mai nudrita; e incontro a morte cruda

ed immatura, io debilmente armata:

per te, se il vuoi, fuggir poss’io di vita;

ma, di aspettare la morte io non ho forza.

18 Vv. 151-154; ibid.

19 E si noti che piú tardi, nella revisione dell’edizione parigina, l’Alfieri rinvigorí certe cadenze troppo dimesse e languide del linguaggio di Ottavia; non tradendo la sua prima ispirazione, ma rafforzando la base di energia essenziale anche ai moti piú dolci ed elegiaci della sua poesia.